Quel geniaccio di Kurt Vonnegut aveva tra gli altri il dono di saper essere sintetico fino alla brutalità (vedi le sue regole sulla scrittura). Grazie a una segnalazione di Mafe, lo ritrovo intento a illustrare la forma delle storie, stilizzando con grafici semplici e immediati alcuni modelli narrativi generali (l'originale in inglese, con la trascrizione della lezione che tenne alla lavagna nel 2005, si trova qui).
Saper vedere la forma delle cose è indispensabile in fase di creazione strutturata, ma risulta utile anche per una fruizione consapevole. Si tratta dunque di una qualità valida per la scrittura come per la lettura.
Se poi la lettura si estendesse alla realtà non alfabetica, tale capacità potrebbe servire da potente ausilio per la comprensione degli accadimenti e auspicabilmente per la loro progettazione. In altre parole, potrebbe esserci d'aiuto nel delineare un senso allorquando le campate del vivere si fanno più ampie rispetto al nostro passo quotidiano, come le pagine o i capitoli rispetto alle righe o ai singoli paragrafi.
Quante volte, per esempio, rimettere le cose in prospettiva contribuirebbe a lenire un dolore, a non scoraggiarsi per un'avversità, ad abbandonare stupide abitudini, a ritrovare il senso della misura e di quel che conta davvero?
Oh, bene, allora è tutto risolto! Eh, no: è sempre un po' più complicato di come sembra. Per averne conferma, basta seguire la lezione fino in fondo, con l'analisi dell'Amleto di Shakespeare a esemplificare la difficoltà di capirci qualcosa in questa vita, in cui non si sa nemmeno se considerare fortunato o sfortunato un dato evento. Tuttavia, direi, vale la pena provare a plasmarsela la propria storia, senza arrendersi alla rassegnazione di un finale mal scritto.
Come twitta Adamo Lanna: "se cominci a credere che nella tua vita non ci sia posto per il lieto fine hai di fatto abbandonato la sala". Riprendendone la metafora cinematografica, mi e ti dico: non rassegnarti mai, fino alla fine, anzi oltre, perché contano anche i titoli di coda.
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