25 luglio 2011

Onda su onda

Quella volta che dalla Sardegna tornai in aereo fu un trauma. Non me ne resi conto immediatamente, ma il distacco era stato troppo netto, troppo brusca la disparità climatica e cromatica. S'era in settembre, sul finire del secolo scorso, e per colmo di effetto speciale al contrario, a Milano trovammo la nebbia; la nebbia d'estate, senza nemmeno nessuno con cui protestare. (La nebbia d'estate l'avevo già vista a Agadir, incredulo nonostante mi avessero preavvertito -- e no, non avevo mica creduto a Bogart e compagnia bella, e invece).
Comunque, tornare da un posto così, come l'isola magica, tutto d'un tratto, non fa per me. Mi ci vuole più tempo, più gradualità, mi ci vuole il traghetto. Difatti, quella volta dell'aereo, piombai in una sorta di sottile abbacchiamento, un'esitazione ad accettare la realtà, un rifiuto ad abbracciare il grigiore del cielo di quei giorni dopo aver sbrigliato tanto a lungo e tanto in largo lo sguardo in cromie profumate, i sensi in sapori e spensieri, le energie in allegre delizie e feconde.
Dicono del mal di Sardegna, e sarà anche per quello, ma dev'essere soprattutto perché non ci so fare coi distacchi. Quella cosa per cui a una festa o anche in una serata qualsiasi vuoi essere sempre l'ultimo ad andartene, quella cosa per cui in nave stai ancora a lungo a poppa quando ormai la riva è lontana e invisibile all'occhio, quella cosa per cui ti restano attaccati lembi di cuore ai ricordi come pezzi di labbro alla sigaretta tenuta lì troppo a lungo.
Non ci so fare coi distacchi, sebbene mi ridica che "ogni distacco va considerato come un trampolino". Mi viene meglio tenere tesi e vivi i fili del sentire, anche a distanza di tempo e di spazio, mi viene meglio tenere in bocca e negli occhi aromi e colori e sorridere per averne goduto, per esserci stato. E solo poi, da quel sorriso, strizzare l'occhio ai gabbiani che accompagnano il navigare, senza capire se siano sempre gli stessi, eleganti angeli muti, a disegnar volteggi come inviti al futuro.

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Musica: "Che colori hai negli occhi?" "Eh, verde smeraldo."

14 luglio 2011

Tradurre è un giardino di mestieri che si biforcano

Un esempio di intraducibilità lo si trova spesso nelle battute, ancor più di frequente nelle vignette o strisce comiche, come questa:


- Show me a philosopher leading a funeral procession...
- And I'll show you a guy who puts Descartes before the hearse.


Letteralmente, i due personaggi dicono:
"Mostrami un filosofo in testa a un funerale..."
"E ti mostrerò un tizio che mette Cartesio davanti al carro funebre."

Il fatto è che Descartes (Cartesio) in inglese suona più o meno come "the cart" (il carro), mentre "the hearse" (il carro funebre) richiama "the horse" (il cavallo). Sapendo che "to put the cart before the horse" equivale al nostro "mettere il carro davanti ai buoi", ecco che si svela il gioco di parole.

Ora dimmi: sarebbe stato possibile tradurlo o renderlo con un meccanismo umoristico equivalente? Come?

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Precedenti: Esercizio di traduzione uno e due

08 luglio 2011

Il cielo poi alla fine non cade mai

Un vero e proprio lavacro, a ripensarci. Forse una nuvola impazzita o chissà che, da su di botto scarica un temporalone battente*, non s'accontenta e rinforza con grandine, grossa, a picchiare su vetri e metalli; precari anfibi su ruote sollevano giochi d'acqua sui percorsi allagati mentre si procede verso il sole; tempo da arcobaleni, ma nisba, però i colori sono comunque più belli all'uscita da quell'autolavaggio celeste e non importa se poi i piedi si bagnano, non importa se niente di grosso è cambiato, perché basta un po' d'acqualuce nuova per sbattezzarsi e ribattezzarsi, un raggio di voce per risorridere al mondo un momento, anche senza l'arcobaleno, benché con l'arcobaleno sia meglio, si sa.

*stavo per scrivere in automatico "battente bandiera liberiana".

07 luglio 2011

Se per caso un giorno o l'altro

Che corricchiare e non correre sia il verbo giusto l'ho verificato anche oggi, quando due tizi mi hanno superato scheggiando via in scioltezza senza smettere di chiacchierare tra loro. Per la cronaca, non ho ceduto alla tentazione di forzare e ho mantenuto l'andatura. D'altronde la mia bravura era già stata un'altra: trovare la determinazione, nel pressante marasma lavorativo, di staccare per andarmi a concedere mezz'ora di sudore, non in dolce compagnia o amoroso convivio, ma in solitario.
Oddio, solitario per modo di dire, visto che sono perfino passato in mezzo a una caccia al tesoro, sorridendo alla ciurma che mi chiedeva invano delle dritte (dov'è una grossa scacchiera qui nel parco?), per non parlare dei pensieri che porto nel cuore e degli occhi tuttora intrisi di antico stupore. Se ero solo, lo ero col mondo intorno.

05 luglio 2011

Ma non ci dorme più nessuno

Se leggo Consonno, ancora oggi penso a una delle due linee urbane di Seregno, la numero 3, che taglia la cittadina da sud a nord e che all'epoca mia prendeva il nome dai due capolinea "Stadio-Consonno" (l'altra è la numero 1, "Dosso-Ceredo", mentre la 2 non è mai pervenuta).

Ora, mentre ammazzo zanzare usando le mani come piatti bandistici, il ricordo s'ingarbuglia perché riaffiorano visioni e sensazioni di viaggi quotidiani al ritorno dalla Terza Scuola Media (vicino allo Stadio) fino a via Montello (verso il Dosso), su un autobus che presumibilmente seguiva un percorso ad hoc per noi scolari, impegnati per l'intero tragitto in goffi animaleschi approcci esplorativi col genere complementare, rappresentato dalle nostre già sviluppate compagne di classe. Un ben di dio cui non si sapeva bene come attingere, in un bailamme tra finta ritrosia e allegra connivenza da zona franca itinerante, che iniziava e cessava quotidianamente in quel percorso d'autobus.

Consonno, scopro invece dopo qualche decennio, non è solo un quartiere seregnese, ma un'ex località dell'alta Brianza: una cittadella fantasma, frazione di Olginate in provincia di Lecco, dalla storia quasi incredibile, oscillante tra farsesca amarezza e tragedia grottesca, come racconta con parole e immagini il bell'articolo del blog Bizzarro Bazar, che rimanda anche al sito sulla storia di Consonno.


a cura di Giulio Pianese

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