07 dicembre 2020

Abbracci da sogno

Prima di parlarne ho aspettato qualche giorno, e l'ho raccontato a mia mamma perché sapevo che l'avrebbe allietata: "L'altra notte ho sognato papà." "Ooh, e cosa faceva?" "Sorrideva, lo abbracciavo ed era contento." "Oh, che bello che sorrideva!"

Lui era un po' più giovane degli ultimi tempi, io invece avevo la mia età attuale. Ci trovavamo nel salotto dei miei. Lui sorrideva perché ero lì, lo abbracciavo, ci abbracciavamo e si percepiva che la sua contentezza andava oltre le parole, che non pronunciava, limitandosi a sorridere di cuore. C'era una sorta di pudore, quello che sempre, tutti, abbiamo avuto in famiglia riguardo alla verbalizzazione. In verità, credo che tale sorta di pudore investa tutte le famiglie, almeno fino a una certa fase, superata la quale si riesce, perlomeno ogni tanto, a dirsi esplicitamente anche il bene. 

In quell'abbraccio lungo e affettuoso c'era quello mio di figlio e quello suo di padre, ma anche quello mio di padre abbracciato da mio figlio, nel senso che i gesti nel sogno replicavano quelli della realtà recente, del modo in cui il mio secondogenito ventenne mi abbraccia dopo qualche tempo che non ci si vede. 

Nell'abbraccio, in tutti gli abbracci veri, c'è tutto un linguaggio, che comprende e va oltre le parole. Nel sogno, in tutti i sogni vissuti, c'è tutta una realtà, che comprende e va oltre il dire. Abbracci e sogni, veri e reali di per sé, cercano però le parole e il dire che sappiano guarnirli, fissarli, incorniciarli, perché restino un po' di più, ancora un po', almeno un altro po'.

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a cura di Giulio Pianese

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