29 gennaio 2011

Giorni e giorni e giorni della merla

C’è un rituale, c’è un andare in tondo, ci sono bimbi che sorridono, mamme che salutano, frutta candita, nuvole di fiato. Gli sguardi non si posano per molto, cercano. Cercano in giro, come se sapessero di dover trovare altro. Trovare o forse ritrovare. Le giostre non sono mai fuori stagione, né lo è la fiamma dell’infatuazione, vera o fatua che sia.
Accanto, un luccichio di complicità colora l’iride e ancor più il sorriso, goloso di sapori da scoprire o forse riscoprire. Un gettone e si parte, il contatto è immediato e il rinculo subito cancellato dal primo urto laterale; si prendono le misure per districarsi girando all’infinito il volante e premendo il pedale tra urletti assortiti e l’antiritmo di canzoni melense sparate insulsamente fino a far gracchiare gli altoparlanti.

Lui sa che si fermerà per un po’, ma non a lungo. Non sa dove ha lasciato la sua vita e pensa che ha perso il destino o il senso di averne uno. Guarda e legge come in un fumetto i pensieri della sventola straniera che sta campendo del suo lunghissimo passo le vie dello shopping invernale: Ti sento nei miei capelli, sento il tuo odore mentre cammino specchiandomi tutta nelle vetrine e negli occhi di passanti ingolositi. Sono poche ore e già mi manchi. Il peggio è sapere che è solo un’anticipazione di quanto succederà domani, su quell’aereo, e poi i giorni seguenti, ogni volta che il piede premerà sulla tavoletta per accelerare la distrazione su un qualsiasi rettilineo.

Quei due ridono, quelle altre ammiccano complici, anche in quel gruppetto motteggiano sotto i portici. Il freddo non esiste o meglio non resiste alla voglia di identità: dimostrare le appartenenze serve e un filo di nudo anche d’inverno trova spazio. Occhi bistrati e bistrattati, troppo azzurre e troppo rosa le palpebre, troppo carico il kajal, pesanti le matite e catarifrangenti le labbra. Però esserci e sapersi lì insieme conta, conta più di tutto, e in quel momento basta. Tutto il mondo, fuori.

Di fronte allo specchio, ricorda di essere stato un bel bocconcino, conteso addirittura e capace di leggerezza, nonché di stupide leggerezze. D’altronde, le priorità erano altre. Rievoca la prelibatezza del gioco, un modo di essere e fare cui abbandonarsi con serietà, quella indispensabile alla gioia che sa di sé. Già, il gioco, da cui farsi rapire con estasi fanciullesca e in fin dei conti un po’ cogliona, sì, ma vera e piena di presente. Di fronte allo specchio, anni dopo, gli occhi sono arrossati, l’epidermide chiede protezione, le pupille scintillano cogliendo l’immensa velocità del cronosoffio, mentre tutto viene rimandato come se ci fosse davvero tempo, come se bastasse anelare per garantirsi la prospettiva di nuovi splendori, di splendori nuovi o rinnovati.

Tutti quanti aspettano che il sole torni a scottare sulla pelle, disposti a sacrificarglisi fino al rossore, fino alle bolle se necessario. Sperano anche nel vento, quello capace di far alzare in volo gli aquiloni. E in un’onda da cavalcare, la preferita, indorata dal sole, richiamata dal mare o dall’amare. Senza nemmeno ancora allertare l’apparato circolatorio, ecco che una nuova felicità, illusoria o meno, agile si fa strada tra lo schiudersi delle labbra e lo stupore dietro alle palpebre. I bimbi dalle guance tonde, intanto, starnutiscono aggrappati a un albero, in attesa di un viaggiatore del tempo che li venga a prendere.

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a cura di Giulio Pianese

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