21 novembre 2013

Tra il dire e il fare

Si dice che il fare conti più del dire, però è innegabile che il dire, quando dice davvero, sappia aiutarci a delineare meglio il reale, avvicinandolo alle nostre facoltà di comprensione e memoria. Tutto questo, ovviamente, funziona se non si permette che il dire appiattisca e ingabbi, lasciando invece che suggerisca e suggelli, attraversando con prudenza e delicatezza le fasi del tratteggio e del dipinto prima di azzardarsi in quelle della precisazione e della definizione.

Ci sono poi i casi in cui il dire, parlando del fare, riesce a essere vero in modo semplice, e anche per questo ancora più bello. Uno di questi mi pare sia l'intervento della mia amica Laura a proposito di volontariato in quel di Bolzano, che voglio riportare integralmente qui:

Quante e quali chiavi per aprire la città? Sicuramente molte e diverse.

Quando racconto di aver scelto di dedicare un po' del mio tempo a svolgere delle attività insieme a persone che vivono la sofferenza psichica, capita che mi venga posta la domanda: "Ma non hai paura?" "Paura di che?" Allora capisco che una di queste chiavi (probabilmente la mia) è la voglia di "conoscere" o almeno di "provare a conoscere".
Ci si blocca e ci si spaventa davanti ai segni della sofferenza, perché spesso questi sono molto evidenti e nascondono tutto il resto, ma se ci si avvicina con la voglia di conoscere e di capire si scopre che dietro l'apparenza ci sono belle persone, ricche di qualità e di attenzioni per gli altri; perché chi conosce davvero la sofferenza ha una particolare sensibilità nel comprendere quella di chi gli sta vicino.

Per quanto mi riguarda, mi sono avvicinata casualmente all'associazione tramite un'amica che teneva uno dei corsi offerti e vi ho partecipato come "esterna". Non sapevo quali fossero i volontari e quali fossero "gli amici" e in alcuni casi, senza il coraggio di chiedere informazioni, mi domandavo: "Ma questo, sarà un volontario o "un amico"?" È capitato anche che mi chiedessero: "Ma tu sei una volontaria o un’amica?" Secondo voi? :-)

L'altro giorno una persona che frequenta uno dei corsi come "esterna" diceva di essersi resa conto che il confine tra la cosiddetta "normalità" e la sofferenza psichica è una linea molto sottile. In effetti sembra enorme solo se ci si ferma all'apparenza, al gonfiore o al rallentamento provocato dai farmaci, all'abbigliamento poco curato, a un atteggiamento particolare. A me sembra solo di incontrare belle persone che a volte raccontano storie difficili e dolorose, che hanno una forza invidiabile nel convivere con le loro fragilità e le loro paure.

Di recente abbiamo avuto un incontro con un gruppo di Roma. Tre di loro erano donne molto segnate (esteriormente?) dalla sofferenza psichica. Nell'immediato ho pensato: "Mi sa che qua è dura!" Ci siamo seduti tutti intorno a un tavolo per pranzare e lentamente abbiamo cominciato a scambiarci informazioni ed esperienze. È un peccato che non ci fosse stata una telecamera nascosta e che adesso non possiate vedere il filmato di quell'incontro, perché mi piacerebbe che vi accadesse quello che è accaduto a me: piano piano vi accorgereste che non notate più il dente che manca, ma sorrisi che illuminano, che non sentite più respiri affaticati, ma riflessioni profonde, che non vedete più sguardi bassi e cupi, ma occhi vivaci e attenti.

Tutto questo non per dire "datevi al volontariato", ma per proporvi di non scappare quando il vicino di casa "matto" sta salendo le scale: provate magari una volta con un sorriso, una volta con un buongiorno ad avvicinarlo e piano piano potreste accorgervi che lui ha semplicemente più paura di voi, è più solo di voi e che in alcuni casi le cose ci fanno paura solo perché non le conosciamo.

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a cura di Giulio Pianese

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