Credo di sapere quando fu che mi spiacque scoprire che le cose finiscono. Dev'essere stato da bambino, con la tivù ancora in bianco e nero, senza telecomando e con soli quattro canali (primo, secondo, svizzera e capodistria). La triste scoperta dev'essere avvenuta proprio tramite la programmazione televisiva, o perlomeno questo è quanto la memoria emotiva ha archiviato e conservato, in quel modo vago e incisivo delle immagini sincretiche in grado nei sogni di comunicarci fulminee l'esatta istantanea del nostro stato d'animo, o d'anima, lampo intraducibile in parole se non a prezzo di lunghissimi e circonvoluti racconti, frustrati dall'assenza di simultaneità nel dire.
Dev'essere andata così: c'era un ciclo di trasmissioni, tipo forse Senza rete, che scandiva rassicurante l'apparente incuranza dei riti scontati. Le seguivo, magari con modesto coinvolgimento, probabilmente con un certo piacere. Poi un giorno, o piuttosto una sera, mi fu annunciato che la consuetudine settimanale si sarebbe interrotta, perché quella era l'ultima puntata. Che fosse l'ultima in assoluto o che si trattasse dell'interruzione stagionale, nulla cambia, giacché immutato fu per me allora il colpo, uno choc che evidentemente travalicava il fatto in sé, per avviluppare invece nel suo manto nebuloso l'intero tessuto del vivere.
Il punto era, è: le cose finiscono. Le situazioni non durano per sempre. Le esperienze non sono riavvolgibili. Bellezza, piacevolezza e tranquillità non sono sicure né controllabili. Sì, d'accordo, lo so, lo sai, poi c'è un'altra stagione, oppure ci sono altre cose, e pure nuovi inizi, ma. Il chiodino del piccolo lutto un buchino lo lascia comunque, il chiodo grande potrebbe addirittura martoriare. E allora? Beh, almeno aver cura di non lasciarli arrugginire: non rimanere mai, mai sulla croce, specialmente se sotto la pioggia. Ah, e fischiettare.
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P.S.: la canzone l'avevo già linkata (e sorrido).
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