24 febbraio 2010

Leggere e distruggere

Il gioco era quello di dire il nome di un calciatore che iniziasse con la lettera estratta a sorte. Uno a giro, al tuo turno, finché ne sapevi e poi eri eliminato. L'ultimo vinceva. Fu come insegnar loro a pescare anziché limitarsi a regalare un pesce. Loro erano i miei compagni di naja, alpini da alpeggio al IV C.A., spesso incapaci di farsela passare e sempre più spesso inclini a rimanere in camerata a guardare la tele anziché usufruire della libera uscita man mano che il congedo sembrava paradossalmente allontanarsi come la tartaruga che sfugge ad Achille. La tele era un apparecchio clandestino, che il più topo doveva custodire nel suo armadietto schiacciando oltremodo gli effetti personali nel già esiguo spazio disponibile. Il più topo aveva anche un altro compito ingrato, quello di sorvegliare il corridoio al mattino, per consentirci di dormire qualche minuto in più senza essere puniti dall'arrivo di qualche sergente. Però la sua condizione, la condizione del topo, rimaneva tale solo per un mese, e per un mese uno sopporterebbe ben altro, sapendo che poi qualcuno prenderà il suo posto e così via. Una catena virtuosa, come quella delle diecimila lire che si mettevano per il televisorino, cosicché il congedante potesse recuperare il proprio investimento iniziale. Sono le cinque e venti, apri il culo e stringi i denti, ma invece di qualche scherzaccio crudele che magari in altri contesti succedeva pure, solo un gradito avviso per alzarsi a vedere la finale dei 100 metri, quella vinta dal futuro squalificato Ben Johnson. C'è una morale in tutto questo? Sì, certo, ci sarà. Che cosa abbiamo imparato? Non so. Non lo so nemmeno io. Penso che abbiamo imparato a non rifarlo più. Anche se non ho la più pallida idea di che cavolo abbiamo fatto. Sissignore, è difficile a dirsi.

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a cura di Giulio Pianese

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