C'era una volta una ragazza che doveva andare a una festa, ma aveva perso la corriera e non sapeva come fare per raggiungere il paese, punto d'incontro con il resto della compagnia. Veicoli circolanti zero, taxi nemmeno a parlarne, solo nebbiolina tardopomeridiana lungo la carreggiata. S'incamminò scuotendo la testa e le bastò affrettare il passo per sentir cedere il tacco, cui era ben poco avvezza. Il dolore alla caviglia le trasfigurò l'immagine di quella giornata tanto attesa e ora, invece, storta.
Con voce posata ed evitando di corrugare il viso, cominciò a tirare giù una serie di imprecazioni degna di rivaleggiare con la litania di tutti i santi. Per lei era quella udita dal padre, uomo sanguigno e dotato di scarso autocontrollo, ma di notevole verve. Una volta, per assicurarsi di bestemmiarli tutti senza eccezioni, aveva staccato il calendario dal muro e, inforcati gli occhiali, si era prodotto in un capolavoro di fantasia che toccava relazioni e genealogie dell'intero apparato ultraterreno.
Ora sentiva solo lo sfogo della propria voce, privata di ogni eco dall'ovatta dell'aria umida. Il disappunto garbato e lo scoramento contenuto si surriscaldarono in veemente collera, le gote cominciarono a dipingere la misura del suo caricarsi, quindi l'impeto prese le redini fino all'oblio del motivo iniziale dell'incazzatura. Fu allora che contro l'orizzonte traslucido, dal lato dei campi, dove rialzava lo sguardo scarmigliato, si colorarono quattro sagome inquietanti. Lei le fissò senza temere di non sapere. Respirò. Senza capire il perché, si distese di una curiosità tranquilla. Ne attese l'avvicinarsi. Poi ascoltò. Era un invito, l'invitavano a una festa, volevano lei e con sorrisi sghembi glielo comunicavano cantando più o meno così.
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