La prima decisione fu quella giusta: togliersi il maglione. In giro per le classi non fa mica freddo come lassù, oltre le distese di ghiaccio, oltre le distese di neve. Poi, chissà come mai, la necessità di procurare degli elastici per creare una specie di sbuffo ai pantaloni, ché non andassero a finire sotto le suole. Ma come, ne potevano scegliere uno su misura e invece hanno voluto me, come se il physique du rôle dipendesse da uno sguardo. Cintura elastica a fissarli in vita, sotto alla giubba, via gli occhiali (gli orecchini li avevo già tolti e lasciati a casa) ed eccomi pronto a infilare il capo nel bianco apparato barbalunga-e-baffi, cercando di tirare il più possibile dietro le orecchie lo spago deputato a reggerlo, con un nodo insolubile capace d'impedire ogni migliore regolazione. "Tu hai anche i baffi neri?" "Quando ero giovane!" "Ti cade un po' la barba..." "Perché sono vecchio!" Infine, il tradizionale berretto, rosso coi bordi bianchi come il resto della mise. Stai benissimo. Veramente mi sembra un po' troppo arrangiata. "Tu... sei il più bello del mondo..." detto con tono sognante da un bimbo fungerà da sigillo indiscutibile.
"Sei pronto?" chiedono sorridenti le educatrici, ma nemmeno per sogno: non ho idea di cosa fare, dove andare, che dire, come agire. Essere dentro a un'azione che hai sempre solo visto da fuori ti fa sentire contento e inadeguato come in quelle produzioni oniriche in cui eri tu a giocare il derby a San Siro con la maglia del Milan. Mi istruiscono sulla sequenza di consegna dei sacchi dono, destinati alle varie classi, io ascolto e non ci capisco niente. Su di sopra Arcobaleno, Verde, Arancione, non sbagliarti, poi giù in salone incontrerai Azzurri, Lilla e Blu, dopo la canzoncina, ti facciamo segno noi.
Sarò mica emozionato. Caricato il primo sacco sulla slitta, tutto procede in automatico: le entrate, i saluti (un misto tra bonomia Ho-ho-ho e una sorta di accento similucraino non preventivato), anche le improvvisazioni con le quali rispondo alle domande (dove sono le renne? le ho lasciate a pascolare su una nuvola perché sono timide, anzi ricordatevi la notte del 24 di accendere l'albero e spegnere gli occhietti, che se li aprite le renne scappano via), l'apertura dei doni (l'incanto rallentato dell'esitazione curiosa tra i pacchetti e la figura biancobarbuta e imberrettata lì a disposizione), il loro "abbraccio globale" (20 nanerottoli ad attorniarti con la loro magia e convinti che magico sia tu).
Non puoi sbagliare, nemmeno se non sai quali informazioni siano state fornite in precedenza (quante sono le renne? 8. credevo due... 2 per i viaggi brevi, 8 per quelli lunghi! è vero che una si chiama cometa? mmh, quella con la coda lunga, dici? Sì! Sono le altre a chiamarla così, per prenderla in giro), non puoi sbagliare perché in quel momento per loro sei una specie di dio: in un paio di casi trasformi lacrime in sorrisi e partecipazione, tutti ti seguono e vogliono starti vicino, ascoltare, parlare, ti ricordano le loro letterine, i giocattoli agognati, raccontano dell'albero e di sé, poi un quattrenne ti prende in disparte, ti guata ed esclama: "Io v-v-oglio u-un... ffratelino!"
Alla fine, sono stato bravo: non ho risposto con la battuta che è venuta in mente a tutte le persone cui ho raccontato l'episodio. E soprattutto, son riuscito a far finta d'ignorare un paio di vertiginose minigonne, perché Babbo Natale, si sa, ama solo i bambini e le renne.
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