06 giugno 2006

Formiche da cortile

"Però," pensò, "avevo buon gusto da piccolo." Dopo vent'anni i capelli lisci neri incorniciavano lo stesso grazioso musino, degni delle stesse carezze, ma per la prima volta si accorgeva di quanto fosse bello il sottobosco dipinto negli occhi di Raffaella.
"Che roba," disse, recuperando i toni da cortile, "siamo qua tutti, come quando votavamo per decidere se giocare a pallone o fare i giri in bici." Dentro di sé invece pensava al nascondino, a quelle carezze scambiate in cantina, con l'innocenza dettata dall'ignoranza. A come l'avrebbe baciata ora, con la lingua e tutto, figli o non figli.
Ai funerali capita sempre, è la vita a volersi prendere la rivincita sulla decomposizione imminente: una scossa di essenziale, un salvacondotto di autenticità dopo la pantomima della scelta tra le bare.
Il fremito di tenerezza attraversò il midollo di lei che gli stava di fronte, lo sentì; lo volle credere. Così come volle tralasciare la banalità delle parole per riscoprire piuttosto il colore di quella voce dalla cadenza convenzionale.
Fill in the gaps, esercizio carino nelle schede d'inglese, era il nomignolo del suo solito vizio: colmare del proprio miele le altrui discontinuità, fino a connotarle d'illusorio desiderio da pulcino.
Uh, già, la banda del boschetto. Perché bisognava avere una banda, esserne il capo, come in quel libro, o in quel film, o come aveva visto fare dai compagni più grandi e smaliziati. Banda che non era vera banda, con la sua composizione mista e la tranquillità territoriale. Quanto al boschetto: una sparuta messe di fronde atte tutt'al più a occultare i ragazzini alla vedetta familiare appostata sui balconi oltre lo scavo, ove le fondamenta di una futura costruzione tardavano a rivendicare quei dislivelli oramai adibiti al ciclocross.
Tutti uniti, sempre tutti insieme. Poi le strade divergono, si moltiplicano le diramazioni. Il mondo si allarga e nessuno ancora sa di essere formica tra boschi di steli e oceani di pozzanghera, a spaziare nell'immensità di un metro quadro, viaggiando in tondo per tornare ai sotterranei capillari in cui fu larva.
In silenzio si dispiacque, ancora una volta, di averla chiamata oca fino a farla piangere, quel giorno in cui presero un gol facile mentre lei stava giocando in porta. Solo ora capiva, con vent'anni di ritardo. Solo ora in un flash coglieva il gesto amoroso di una bambina che aveva rinunciato ai giri in bici alzando la mano a favore dell'ennesima partita di pallone. In un cortile allungato tra i garage, con le porte disegnate sul muro e i tombini a segnare simmetrici il centrocampo e i dischetti del rigore. Uno ogni tre calci d'angolo, ovviamente.

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a cura di Giulio Pianese

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