Ho un gatto in casa. Se la memoria non mi fa difetto, era dai tempi di Pastina che queste mura non vedevano una presenza felina. La felpata creatura si chiama Lola e appartiene a un'amica che se la riprenderà tra pochi giorni. È tranquilla, finora non ha dato grattacapi e ha innescato nei bimbi un entusiasmo educato e rispettoso, quasi una riedizione laica di antiche adorazioni.
Pastina, lui, era di tutt'altra vivacità (stavo per dire "pasta"). Lo raccattammo dal cortile della vecchia casa con gli occhi destinati a non aprirsi mai. La madre, alle prese con una variopinta e numerosa cucciolata, l'aveva abbandonato alla sua debolezza. Da inguaribili assistenzialisti ci assoggettammo (provvisoriamente, sia chiaro) a nutrirlo, pulirlo, curarlo. Due giorni dopo provammo a rimetterlo in cortile, ma quella troia non riconosceva più il suo odore e gli soffiava contro.
Dunque non ci restò che continuare l'opera, alzandoci di notte per dargli il minibiberon e tenendolo al calduccio sul petto mentre suggeva (fu un allenamento, certo), coccolandolo per consolare a qualsiasi ora i suoi miagolii disperati, osservandolo e aspettando che imparasse a camminare, insegnandogli a mangiare, a lavarsi e tutto il resto.
Per un po' continuò a puzzare da maledetto, poi una volta fuori pericolo fu possibile lavarlo meglio, ma ricordo tuttora il suo odore e quello della bevanda ipernutritiva latte-uova che gli preparavamo.
Di giorno rimaneva con me: a parte le varie incombenze, l'accortezza maggiore era evitare di pestarlo o di passargli sopra con le ruote della sedia girevole.
Cambiammo casa e crescendo poté finalmente sfogarsi e scorrazzare in locali vuoti e ampi, giocare a piacimento tra attrezzi e cavi, infilarsi in ogni possibile anfratto e scatola. Si allungava, il giovane gattino e più di lui la sua coda.
La regola era che non salisse sul letto, ma quando cercavo di afferrarlo per riportarlo con i piedi per terra riusciva ad appiattirsi più di un fumetto e la collottola spariva come un link irraggiungibile.
Infine, come prestabilito, giunse il momento di consegnarlo a una famiglia che l'avrebbe accolto potendo contare anche su un giardino. Momento preparato accuratamente, consegne trasmesse con la meticolosità che nemmeno un genitore apprensivo saprebbe sfoggiare. E il giorno dopo ripassai di lì, per assicurarmi che si trovasse bene. Aveva due mesi e mezzo allora, Pastina.
Non so quanto tempo trascorse, ma tornammo a trovarlo. Era diventato il pascià della via: coccolato da tutti e sempre più bello. Lo riconobbi subito da una macchia sulla zampa e l'emozione fu il disinfettante dei graffi che mi procurò giocando a mordicchiarmi la mano come faceva da neonato.
Era bello Pastina, non so chi né come poté trovare il coraggio di avvelenarlo prima che arrivasse a compiere tre anni. Bastardo.
Era anche battezzato, come gatto. In un certo senso, almeno, visto che il nome glielo aveva appioppato il signor Ivano, quello che mi portava a casa l'acqua in bottiglie di vetro. La cassa sulla spalla, con la coda dell'occhio si rivolse a quel batuffolino precario nei suoi tremolanti passi di limbo e lo apostrofò inesorabile: "Uei, pastina!"
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