21 luglio 2004

Storie di gatti

Ho un gatto in casa. Se la memoria non mi fa difetto, era dai tempi di Pastina che queste mura non vedevano una presenza felina. La felpata creatura si chiama Lola e appartiene a un'amica che se la riprenderà tra pochi giorni. È tranquilla, finora non ha dato grattacapi e ha innescato nei bimbi un entusiasmo educato e rispettoso, quasi una riedizione laica di antiche adorazioni.

Pastina, lui, era di tutt'altra vivacità (stavo per dire "pasta"). Lo raccattammo dal cortile della vecchia casa con gli occhi destinati a non aprirsi mai. La madre, alle prese con una variopinta e numerosa cucciolata, l'aveva abbandonato alla sua debolezza. Da inguaribili assistenzialisti ci assoggettammo (provvisoriamente, sia chiaro) a nutrirlo, pulirlo, curarlo. Due giorni dopo provammo a rimetterlo in cortile, ma quella troia non riconosceva più il suo odore e gli soffiava contro.

Dunque non ci restò che continuare l'opera, alzandoci di notte per dargli il minibiberon e tenendolo al calduccio sul petto mentre suggeva (fu un allenamento, certo), coccolandolo per consolare a qualsiasi ora i suoi miagolii disperati, osservandolo e aspettando che imparasse a camminare, insegnandogli a mangiare, a lavarsi e tutto il resto.
Per un po' continuò a puzzare da maledetto, poi una volta fuori pericolo fu possibile lavarlo meglio, ma ricordo tuttora il suo odore e quello della bevanda ipernutritiva latte-uova che gli preparavamo.
Di giorno rimaneva con me: a parte le varie incombenze, l'accortezza maggiore era evitare di pestarlo o di passargli sopra con le ruote della sedia girevole.

Cambiammo casa e crescendo poté finalmente sfogarsi e scorrazzare in locali vuoti e ampi, giocare a piacimento tra attrezzi e cavi, infilarsi in ogni possibile anfratto e scatola. Si allungava, il giovane gattino e più di lui la sua coda.
La regola era che non salisse sul letto, ma quando cercavo di afferrarlo per riportarlo con i piedi per terra riusciva ad appiattirsi più di un fumetto e la collottola spariva come un link irraggiungibile.

Infine, come prestabilito, giunse il momento di consegnarlo a una famiglia che l'avrebbe accolto potendo contare anche su un giardino. Momento preparato accuratamente, consegne trasmesse con la meticolosità che nemmeno un genitore apprensivo saprebbe sfoggiare. E il giorno dopo ripassai di lì, per assicurarmi che si trovasse bene. Aveva due mesi e mezzo allora, Pastina.

Non so quanto tempo trascorse, ma tornammo a trovarlo. Era diventato il pascià della via: coccolato da tutti e sempre più bello. Lo riconobbi subito da una macchia sulla zampa e l'emozione fu il disinfettante dei graffi che mi procurò giocando a mordicchiarmi la mano come faceva da neonato.
Era bello Pastina, non so chi né come poté trovare il coraggio di avvelenarlo prima che arrivasse a compiere tre anni. Bastardo.

Era anche battezzato, come gatto. In un certo senso, almeno, visto che il nome glielo aveva appioppato il signor Ivano, quello che mi portava a casa l'acqua in bottiglie di vetro. La cassa sulla spalla, con la coda dell'occhio si rivolse a quel batuffolino precario nei suoi tremolanti passi di limbo e lo apostrofò inesorabile: "Uei, pastina!"

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a cura di Giulio Pianese

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