27 settembre 2017

Visione periferica

"Third time lucky", si dice in inglese, la terza volta è quella fortunata. È un invito a provarci e riprovarci, ed è quello che mi ha permesso di ritirare finalmente il certificato penale, che mi serve per uno dei miei lavori. Oggi, inforcata la claudicante bici rossa, quella coi lucchetti che valgono più di lei, ce l'ho fatta a portarmelo a casa.

L'avevo ordinato on-line alla Procura di Monza, ma la prima volta non avevo le marche da bollo e tutti i tabaccai nei dintorni erano in pausa pranzo (cosa impensabile a Milano). Così, nervoso e deluso, ero tornato al parcheggio sotterraneo a pagamento per poi infilarmi nel dedalo dei sensi obbligati, fastidiosa trafila di chi è così stupido da voler raggiungere un centro storico in automobile.

La seconda volta, dopo essermi procurato le marche da bollo, c'ero andato in bici, evitando il delirio delle zone non accessibili e dei parcheggi rari e cari, solo che avevo letto male gli orari di apertura e sono arrivato un quarto d'ora dopo il tempo utile. Ero partito tardi per via di una gomma bucata (no, niente cavallette), due volte dal ciclista in un mese e stavolta proprio all'ultimo minuto. Diciamo che dopo aver trovato la porta del casellario sbarrata, c'era di che battezzare la giornata come infausta, e invece.

Invece mi sono aggirato per un po' tra le zone pedociclabili del capoluogo brianzolo, dove vagheggiavano e albeggiavano intensi e golosi ricordi, poi ho deciso di concedermi un giretto un po' casuale sulla via del ritorno, seguendo istinto e pedali e guardandomi intorno.
A guardarmi intorno, in verità, avevo cominciato già all'andata, ché la bassa velocità questo permette e invita a fare. Lì mi ero ritrovato esattamente nell'inesatto territorio di mezzo instabilmente ubicato tra zona urbana e campagne. Case e campi, un prato verde incolto e un capannone, due sterrate e un deposito di rottami spropositatamente elevato al di là di un muro, sorprendente metallico montone luccicante al sole del primo meriggio, corrusco come un mucchio di lucidi scudi guerrieri.
Una strada chiusa, così dice il cartello, ma non cambio rotta, la percorro e ne esploro le piccole ramificazioni, costeggiando dimore di foggia diversa, dai residui di antiche cascine a case e villette, talvolta perfino graziose. Proseguo tra sfondi diseguali fino al termine ultimo, un cantiere col cancello aperto dove un cane grasso aggressivo slegato mi induce a fare dietrofront, pedalando via dalla sua corsa abbaiante e riguadagnando con ostentata tranquillità la via di casa.
Per orientarmi, usavo le montagne: Grigne e Resegone come stelle polari, ma su fondali celesti attraversati da qualche bianca nuvoletta.

Il pensiero trovava analogie con le camminate extraurbane raccontate da Carlo Molinaro, un po' a zonzo e con poesia, e con gli sguardi posati da Gianni Biondillo sulle periferie.
Posare lo sguardo è un'arte, nel senso artigiano del termine, un mestiere quasi come quello di vivere, è un modo per preservare il respiro lungo e la capacità di far rilucere gli occhi anche di rimbalzo, grazie a un'inquadratura scandita da un giro di pedali che abbraccia il cielo e l'asfalto, le sterpaglie e il sole che si sdilinquisce su dei rottami. Non è tutto idillio quel che luccica, e nemmeno il resto, ma quando il soffio d'intorno te ne porge il pulsare, captalo, e sèntitici dentro. Sei tu e il mondo, e il mondo è tu.

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a cura di Giulio Pianese

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