18 marzo 2010

Firulì firulà

La storiella di Socrate e della cicuta la usai una volta per convincere un bravo chitarrista che valeva la pena dedicarsi a perfezionare l'esecuzione di un pezzo sebbene lui fosse in procinto di partire e dunque di lasciare per sempre il gruppo. A margine, non fu un per sempre, ci fu un revival, ma non era quello il punto. Il punto era che per decidere se vale-la-pena-di non si deve puntare su motivazioni esterne: non si può puntare sul futuro perché è ignoto, non si può puntare sull'utilità perché è incerta o discutibile, non si può puntare sul rosso e sul nero contemporaneamente perché alla fine se non sei il banco ci rimetti i soldi e la serata. Su cosa si debba puntare non posso dirtelo, non perché sia un segreto, ma perché è come il dito di Jack Palance: la cosa è la tua cosa, non potrebbe essere altrimenti, se te la dico io non è più la tua cosa e se non ti pago non ha senso che ti sforzi per realizzarla. Poi è pur vero che se anche potessi dirtelo, non te lo saprei dire, perché delle due l'una: o non m'interessa abbastanza di te e quindi non ti conosco fin dietro le pupille oppure m'interessa molto di te e in tal caso il mio parere sarebbe condizionato dal coinvolgimento. Non resta che tacere? Tacere o raccontar storielle, ma senza raccontare storie: ridicolo vantarsi di avere la soluzione in tasca, soprattutto mentre ci si pensa o ripensa nudi. Invece, dai, se non vuoi raccontartela, usa la scaltrezza e nota che una storiella usata manca di freschezza, che le alternative sono artificiose e che, in luogo del dito, un buon veterinario utilizza un braccio, sa che con le vacche ci vuole tutto, a costo di farsi inondare ogni tanto dalle loro esternazioni.

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a cura di Giulio Pianese

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