04 novembre 2008

Contralba

Apparecchia, disse, che ti mangerò viva. Ti bramo e ti sbrano, ma non tutta, non stare a preoccuparti. Lei, ubbidiente come s'era lasciata abituare, assentì facendo brillare lo sguardo. Le piaceva sdraiarsi su uno dei lunghi tavoli di legno, ancora appiccicosi di birra sversata e unti delle salsine versicolori, le piaceva contrastare il proprio igienismo con quel contatto tra la pelle sua nuda e gli sbriciolamenti residui degli avventori, ragazzi suoi coetanei che come lei vivevano lì quasi ogni serata, però dall'altra parte del bancone.

Aveva preso a rincasare sempre più tardi, ma sua sorella non la sentiva nemmeno, sprofondata nel sonnifero fino alla contralba, così come soleva chiamare l'aurora teorica nell'antracite metropolitana, momento in cui si evocava dagli abissi del nonsogno per arrampicarsi sui doveri lavorativi. Ossia, quando a cervello scarmigliato e barcollante si preparava a presentarsi in ufficio. Sola, da troppo tempo sola in mezzo a 8 milioni di abitanti, la ospitava sul divano letto affinché, sottratta all'obbligo di rimediare i soldi dell'affitto, la piccola potesse trovare anche il tempo di studiare.
Sola era anche lei, "la piccola", dopo avere abbandonato la compagnia dei giardini e l'eterno moroso, rimasto più stordito che addolorato dal suo menevadovianonstiamopiuinsiemeciao. Non avrebbe saputo definire il movente, comunque nessuno glielo aveva chiesto. Essere una ragazzina sintetica e determinata, alle volte veniva comodo. Nel caso, probabilmente avrebbe risposto con uno dei suoi sguardi intensi che lasciavano intendere qualsiasi cosa.

Mica s'era pentita. Studiare, stava studiando quasi zero. Imparare, però, stava imparando: sapeva come servire senza sprecare tempo né energie, come stuzzicare tutti quanti senza trovarsi invischiata in spiacevolezze, come soddisfare lui senza rinunciare mai al proprio appagamento.

Dunque, dopo aver fatto scattare i blocchi della saracinesca, si apprestava a spogliarsi e ad appendere diligente come ogni volta maglietta jeans e intimo prima di allungarsi sul primo tavolo di fronte allo specchio, quando la sua impazienza celata a stento subì un sussulto di arresto. Quanto aveva visto o creduto di vedere nel riflesso non era il solito famelico fauno, ma qualcuno o qualcosa di ben più inquietante. Tuttavia, deglutendo l'ansia e l'ingovernabile palpito, non si sottrasse alla sequela cerimoniale dei soliti movimenti, quelli capaci di attizzarlo irrimediabilmente e perciò altrettanto efficaci nel procurarle il piacere.
Piacere per lei sommo, fatto di potere, di potenza, potere in potenza da un certo punto di vista, ad ogni modo sufficiente a farla sentire per magia fuori di sé in quanto essenza inglobante. Lei era una e nel contempo unita a lui, da cui veniva mangiata e di cui in realtà si nutriva. Ogni volta, per più volte, instancabile.

E anche stavolta, lo percepiva orgogliosa con tutti e sette i sensi, lui reagiva tale e quale a un magnete, calamitato da lei oltre ogni possibile volontà, divorato dalla sua stessa voracità. Fiera, lei, di quella passione smodata. Fiera, lui, bestialmente. Anche stavolta, il suo godimento di ragazzina dea si scatenava. La sacralità dell'istante si eternava di nuovo. Sacrificarsi per lui non poteva inficiare il valore di quella vera e propria idolatria. Lo scintillio della mannaia le si amplificò nello sguardo che gli rimandò intenso più che mai, ancora una volta, l'ultima.

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a cura di Giulio Pianese

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